lunedì 10 dicembre 2012

Resoconto IV Giornata della Coscienza Nera


“Migranti e Schiavitù” (Considerazioni sulla IV Giornata della Coscienza Nera)

Per tante persone, emigrare è la prima tappa verso la realizzazione di un sogno. Ma è anche una
lacerazione che lascia i suoi segni profondi nell’animo. Se da un lato la possibilità di confrontarsi
con società diverse e di esplorare nuovi orizzonti costituisce un arricchimento sia per chi viaggia che
per la comunità ospitante, lo spostamento nello spazio – e soprattutto nelle dimensioni culturali – è
sempre un trauma che difficilmente si assorbe in maniera indolore. L’analogia di Thérèse Théodor è
calzante a questo proposito: un frutto esotico trapiantato in Italia crescerà e sarà buono da mangiare,
ma sicuramente il suo profumo e il suo sapore saranno differenti, lontani da quelli che aveva nella terra
d’origine.
Vista la complessità delle reti di comunicazione che si sono sviluppate grazie al processo di
globalizzazione, i contatti con la madrepatria sono diventati più semplici da mantenere e gli elementi
essenziali delle identità individuali e collettive si fondano su una continua mescolanza d’influenze
eterogenee. In mezzo a questo calderone di stimoli multietnici è però necessario non perdere di vista
il proprio punto di partenza particolare, bisogna saper tracciare in modo chiaro le direttrici storico-
geografiche che stanno determinando il nuovo panorama mondiale. Ecco perché ogni individuo deve
ripercorrere il cammino del suo popolo, così da potersi inserire a pieno titolo e con cognizione di causa
all’interno di un mosaico più vasto fatto non soltanto di grandi salti e cesure ma anche di movimenti su
scala più ridotta.

Camilla Spadavecchia si è specializzata nell’osservazione dei flussi migratori femminili nell’Africa
sub-sahariana, un fenomeno in forte aumento negli ultimi anni. Nella maggior parte dei casi, le
donne seguono per lo più traiettorie continentali (Burkina Faso /Costa d’Avorio, Zimbabwe / Sud
Africa, Uganda / Eritrea) e solo una piccola percentuale sceglie come meta finale un Paese al di
fuori della regione (9% Francia, 5% Arabia Saudita). Da questi numeri si deduce che l’Italia è toccata
solo marginalmente dalla questione e che il parlare in tono allarmistico di “ondate” o di “invasioni”
non fa che denunciare l’incapacità ricettiva del governo. Sin dalla Convenzione di Ginevra del 1951,
l’accoglienza degli immigrati e l’assistenza ai richiedenti asilo è uno dei temi centrali del diritto
umanitario ma ci sono ancora troppe resistenze da superare, tanto nell’atteggiamento diffidente
dei cittadini comuni quanto nell’aberrazione giuridica di leggi che sembrano contraddire i principi
dell’articolo 10: Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica
secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Purtroppo le storie di morte e disperazione che costellano le pagine di cronaca – e tante altre
che passano inascoltate – negano il valore della solidarietà umana e confermano il progressivo
arroccamento dei vecchi sistemi su posizioni di chiusura impossibili da sostenere. La corsa irrazionale
alla crescita del capitale ha portato all’apertura di mercati sempre più spietati e alla conseguente

riedizione del concetto di schiavitù. Un tempo i neri venivano trasportati in catene nelle stive per
alimentare il bacino di forza-lavoro disponibile nelle Americhe e incrementare il “Commercio
Triangolare” su tre continenti. Giunti su suolo straniero, gli schiavi erano considerate cose, animali da
comprare o vendere nella pubblica piazza e spesso erano inclusi nel prezzo del terreno che occupavano.
Nulla di strano. Il meccanismo di animalizzazione dell’Altro è una pratica antichissima per individuare
un nemico e definire quindi i contorni netti della propria realtà. In Africa la tratta esisteva già nel X
secolo come pratica endogena, lungo le rotte trans-sahariane verso il Maghreb, e sulle vie carovaniere
settentrionali controllate dagli arabi, che conducevano fino ai porti dell’Oceano Indiano.
Le innovazioni in campo navale, la “scoperta” dell’America e la spartizione politica dei nuovi
territori non hanno fatto che accelerare ed esasperare queste distorsioni, generando ferite che tardano
a rimarginarsi, e anzi sanguinano con incredibile violenza multilaterale macchiando l’attualità. Lo
spettacolo Bartolomé de las Casas Uomo Moderno della compagnia teatrale Arguedas dimostra l’evidenza
trasversale di una barbarie perpetrata in nome della civilizzazione: i fatti cruenti del XVI secolo
americano si ripetono quasi immutati in altre epoche e in altri posti. Gli indigeni trasferiti forzatamente
nelle haciendas erano torturati nel Cinquecento come nel 1967, le tribù della Terra del Fuoco venivano
sterminate come gli indiani nelle pianure del Nord; oggi contingenti di esuli attraversano il deserto
e poi il mare per raggiungere le coste europee e si ritrovano ammassati nei barconi, stipati in centri
d’identificazione troppo simili a dei lager, impiegati in lavori faticosi e degradanti (praticamente senza
paga e in condizioni di vitto e alloggio disumane). Molti sono stati vittima di aggressioni e soprusi
durante il lungo tragitto – un’odissea di partenze, ritorni e rinvii – ma rimpiangono l’Africa e sperano
di poter tornare, se non proprio nel loro Paese flagellato dalle guerre, almeno in una nazione limitrofa,
dove possano respirare aria di casa. Qui sta la nota dolente. Oltre la superficie, il razzismo – come
struttura difensiva – è ancora radicato nella mentalità corrente: ricordate il caso di Rosarno? I braccianti
dei campi di pomodori in rivolta contro la dittatura dei proprietari terrieri, proprio come succedeva
secoli fa nel Brasile rurale di Zumbi dos Palmares. Da quei giorni del 2010 poco è cambiato: è stato
istituito il reato di caporalato ma la strada verso la libertà e la dignità è ancora tortuosa, con il settore
agricolo saldamente in mano alle mafie e un’opinione pubblica che non cambia le sue posizioni: “i neri
sono poco evoluti, simili a bestie”; “gli arabi sono tutti terroristi!”
Come si può modificare queste prospettive?
Sarebbe necessario un intervento radicale nelle scuole, una scossa alla coscienza civica che permetta
di oltrepassare l’attenzione distratta che dedichiamo ai servizi giornalistici dal Medio Oriente. La
Primavera Araba non è certo finita e non può essere considerata semplicemente un’onda anomala
che non ci riguarda; le tensioni tra Israele e Palestina e il protrarsi insensato dei conflitti in Iraq e
Afghanistan - nei quali anche l’Italia è ancora inspiegabilmente impantanata – non fanno che ingrossare
le fila di quanti sono costretti a vivere in un altro Stato e cercano la speranza espugnando la “Fortezza
Europa”.
Sarebbe necessario cambiare la mentalità ancora fondamentalmente maschilista e patriarcale che
regola il gioco delle nostre società capitaliste e dimostrare chiaramente che le donne sono un bene
prezioso per la crescita di una comunità, non solo per il loro ruolo di trasmissione famigliare del sapere
ma anche per la brillante inventiva che dimostrano sul lavoro, quando sono loro affidati degli incarichi
di responsabilità. Troppo spesso il corpo femminile viene trattato come oggetto, come nuda proprietà
da plasmare, usare e rompere; troppo spesso anche la vita quotidiana delle nostre città è punteggiata di
abusi piccoli o grandi, psicologici o fisici; troppo spesso chi denuncia non viene ascoltato. Non si sta
parlando del femminicidio quasi sistematico della frontiera messicana ma di uno stillicidio più sottile
e insidioso ci riguarda da vicino e che, comunque tendiamo sempre a trattare come una “variabile
culturale inevitabile”.
È questo l’errore che bisogna correggere prima di poterci considerare davvero democratici.

Elena Colombo
Genova - 25/11/2012